domenica 7 marzo 2010

Olocausto americano.

Centro Librario
"Knut Hamsun"

da "Avanguardia" n°195 - Aprile 2002

David E. Standard
Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo
Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 455, euro 38,73

... Nelle nostre allucinazioni, nelle nostre visioni, così come
nei nostri deliri (ragionati), abbiamo sempre intravisto il
soggetto politico rivoluzionario, anticapitalista ed antistatunitense ...

L'ingloriosa conquista dello spazio continentale americano da parte delle potenze colonialistiche europee, specificamente quella spagnola, inglese e portoghese, rivestite da una ideologia di stampo esclusivista di origine giudaica, purista e presbiteriana, rappresenta una delle pagine più ignominiose e brutali sulla quale si dovrà ancora ampiamente riflettere per arrivare a comprendere integralmente la contemporanea dittatura instaurata dall'imperialismo capitalistico, forte dell'apparato militare e tecnologico statunitense, che continua a radicarsi sull'intero pianeta. A scanso di ogni equivoco, bisogna divulgare e comprendere che lo sterminio degli Amerindi rappresenta un olocausto senza precedenti; dai settanta ai cento milioni di nativi furono uccisi a causa delle violenze e delle torture inflitte dalla avida e putrida feccia d'Europa, insieme alle molteplici malattie virali che lì esportarono ai danni di intere e popolose comunità che ne erano immuni.

Un olocausto -quello autentico e non quello artificioso montato dalla inesauribile macchina propagandistica giudaico-sionista- iniziato con lo sbarco nelle Indie dell'ebreo genovese, già contraddistintosi nella tratta degli schiavi in Africa, Cristoforo Colombo, sotto le insegne della croce cristiana e della corona aragonese, fino ai massacri di Wounded Knee e di Sand Creek avvenuti alla fine del XVIII secolo sotto le bandiere dell'etica protestante, che dava già origine al capitalismo moderno, e della dinastia dei reali d'Inghilterra. Ancor oggi in America Centrale continua lo sterminio dei nativi a causa della politica neocolonialistica che gli USA adottano nell'area, con il supporto economico-militare a governi corrotti e criminali che godono di ogni immunità per il sol fatto di agire in nome e per conto del biglietto verde statunitense. In un rapporto del 1986 della Commissione per i diritti umani è stato riportato che solo in Guatemala, dal 1971, erano scomparse quarantamila persone ed altre centomila erano state assassinate.

Nel suo prologo al libro, Stannard ha scritto: «Appena ventun anni dopo il primo sbarco di Colombo ai Caraibi, l'isola vastamente popolata che l'esploratore aveva rinominato Hispaniola era divenuta una terra isolata; quasi otto milioni di persone ‑che Colombo aveva scelto di chiamare Indiani‑ erano state uccise dalla violenza, dalla malattie e dalla disperazione (...) Nel giro di poche generazioni, in seguito all'incontro con gli europei, la maggioranza dei nativi dell'emisfero occidentale era stata sterminata. II ritmo e la portata del loro annientamento variò nello spazio e nel tempo, ma per anni, fino a tempi recenti, gli storici hanno rivelato, regione dopo regione, un calo demografico compreso tra il 90 e il 98 per cento, con tale regolarità che la media del 95 per cento è considerata un valido criterio di approssimazione». (cfr. p. 10)

Noi lasciamo la trascrizione storica degli avvenimenti e la descrizione dell'immensa civiltà costruita nei millenni da Aztechi, Inca e Maya -per citare i più noti ai più, così come in seguito Sioux e Cheyenne, Apache e Cherokee, Mohicani ed Uroni‑ al libro, così come alcune comparazioni e posizioni dell'Autore (nei confronti dell'esperienza rivoluzionaria per l'autodeterminazione e la libertà del popolo Germanico condotta dal Reich Nazionalsocialista) che non condividiamo.

A noi interessa discutere ed analizzare un fenomeno che, iniziato già nel 1492 a causa di un retroterra culturale ed economico, vedeva perire l'Europa nelle spire del mercantilismo usurocratico primordiale, tessuto da insaziabili speculatori che davano così origine allo sfruttamento capitalistico che ben note famiglie di origine giudaica, impiantate negli Stati del Nord Europa, iniziavano a collaudare. Sfruttamento ancora in corso oggi attraverso le dinamiche mondialiste supportate dall'imperialismo giudaico‑statunitense, pronto addirittura ad usare armi atomiche «tattiche» contro chiunque si ponga di traverso ai suoi interessi, e dal vasto agglomerato di progetti e di speculazioni che multinazionali ed istituzioni tecnocratico bancarie mondiali conducono a viso aperto. Infatti, la corte reale spagnola, indebitata per le continue guerre che si combattevano in terra europea, diede via libera ai conquistadores in cerca dell'Eldorado, di quell'oro che oltre a «salvare» il Regno avrebbe «regalato» qualsiasi ricchezza all’incommensurabile avidità dei marrani. Tenochtitlàn con le proprie celestiali bellezze date dagli Dèi al popolo degli Aztechi, così come Cuzco coi suoi templi avvolti dalle perenni nuvole delle Ande e la gioiosa esistenza degli Inca erano avvertite. Anche la comu­nità dei Maya, una delle civiltà più splendide della cultura mesoamericana, avrebbe subito l'impressionante opera di sterminio come di seguito riporteremo.

È doveroso descrivere, seppur brevemente, come si sviluppavano e come vivevano questi meravigliosi popoli ordinati secondo un siste­ma politico‑economico che a ragione possia­mo descrivere come comunistico-aristocratico. Le armoniose ed equilibrate società dei nativi americani, integrate religiosamente in un con­testo di consonanza col Kosmos, le possiamo riscontrare, di seguito, nelle idee e nelle opere degli utopisti quali Campanella e Moro, come in Charles Fourier.

L'impero dei Maya si estendeva su una vasta area di più di 2500 chilometri quadrati, dalla regione dello Yucatàn nel Messico meridiona­le, attraverso i confini di quelli che attualmente sono Guatemala e Belize, fino ai confini di Honduras ed EI Salvador. Lì sorgevano decine di città importanti ricche di monumentali opere artistiche e architettoniche, città come Kaminaljuyù, il centro principale dello sviluppo dell'antica civiltà maya, Yaxchilàn, Copàn, Uxmal e Tuia, e la ricca Chichèn Itzà. Avanzate tecniche agricole permettevano ai contadini dì ottenere enormi raccolti dalle terre coltivate, e l'ingegnoso sistema di raccolta del­le acque fornivano mezzi di sostentamento tali che la densità di popolazione delle comunità rurali maya raggiunse e superò i duecento abi­tanti per chilometro quadrato. L'universalità dei Maya, la loro religiosità, «è priva del fatalismo che caratterizza il nostro modo esistenziale di conoscere l'universo, in cui il ruolo significativo degli esseri umani sembra sminuito. Queste persone non reagivano al flusso degli eventi naturali lottando per dominarli e controllarli. Nè si consideravano osservatori passivi dell'essenziale neutralità del mondo della natu­ra. Credevano piuttosto di essere intermediari e partecipanti attivi del grande dramma cosmi­co. Provavano interesse per tutti gli avveni­menti terreni. Partecipavano ai rituali, aiutava­no gli dei della natura a trasportare il loro peso lungo l'arduo cammino che dovevano intra­prendere (...) Vivevano in un equilibrio invidiabi­le, una totale armonia nell'accordo tra umanità e natura in cui ognuno rivestiva un ruolo signi­ficativo». (cfr. p. 72‑73)

«Procedendo verso sud, dalla zone più setten­trionali delle Ande si giunge nella regione in cui, ai tempi di Colombo, si trovava l'impero più vasto del mondo, la terra degli Inca che si estendeva, lungo la catena montuosa occiden­tale del Sud America, per una superficie pari alla distanza attuale tra New York e Los Angeles». Come ebbero a riportare gli stessi invasori le città degli Inca erano costruite con enorme cura e precisione, con palazzi di pietra finemente lavorati. Strade estremamente puli­te, grazie ad un sistema di canali che permet­tevano alle acque distribuite dalle abbondanti piogge di lavare continuamente il selciato. Essi abitavano in abitazioni rivestite di legno di cedro, dormivano su amache o su ampi mate­rassi di foglie di palma.

«La spiritualità inca era profondamente radica­ta nelle meraviglie e nel ritmo ciclico del mon­do naturale e nel legame culturale con l'infinita serie di antenati e discendenti che avevano vissuto, e avrebbero continuato a vivere per sempre tra quelle pianure, quelle valli e quelle montagne meravigliose». Tanto da poter ammettere che, «II legame tra la vita e la morte e tra il genere umano e l'ambiente naturale percepito dai popoli andini era profondamente diverso da quello spagnolo e cristiano. La terra che circonda un popolo racconta la storia dei primi antenati e di quelli che verranno dopo. (...) A est delle terre in cui vivevano gli Inca, al di sotto delle cime maestose delle Ande, si estende la fitta giungla dell'Amazzonia, seguita dagli altipiani brasiliani e poi dalle pampas dell'odierna Argentina, nel complesso ben più di dieci milioni di chilometri quadrati di terra, un'area maggiore di quella degli Stati Uniti. In quelle terre, dove sorge la foresta più vasta dei mondo e scorre il fiume più grande del mondo, vivevano popoli così numerosi ed esotici che i primi visitatori occidentali non riuscivano a comprendere se si trattasse dei leggendari abitanti del paradiso terrestre, di una confede­razione di demoni maligni o di entrambi». (cfr. p. 83)

II 3 agosto 1492 avrà così inizio la corsa verso il nuovo continente, un avvenimento che assumerà il significato di innumerevoli sofferenze ed atrocità, schiavitù e morte, per diecine di milioni di esseri umani.

Ovunque Colombo piantò una croce, procla­mando il possesso delle terre in nome dei sovrani di Spagna che avevano finanziato il viaggio, in un secondo momento agli indigeni già imprigionati veniva letto un proclama, in una lingua che gli Indiani sconoscevano, col quale essi dovevano giurare fedeltà al papa ed al sovrano spagnolo. Era il prologo di uno ster­minio pianificato.

«Ovunque giunsero durante il loro viaggio di ispezione, i predatori spagnoli, malati, perico­losamente armati e accompagnati da cani feroci addestrati a uccidere e a sventrare, devastarono le comunità locali ‑già indebolite dalla pestilenza‑ obbligandole a fornire cibo, donne, schiavi e tutto ciò che desideravano. A ogni sbarco precedente le truppe di Colombo si erano recate sulla terraferma e avevano ucciso indiscriminatamente, quasi per diverti­mento, qualsiasi animale, uccello o nativo avessero incontrato, «saccheggiando e distrug­gendo tutto ciò che trovavano», come Fernando, il figlio dell'ammiraglio, affermò con distacco.

«... I raccolti furono lasciati marcire nei campi mentre gli indiani tentavano di fuggire dalla fre­nesia degli attacchi dei conquistatori. La fame, insieme alle epidemie e alle uccisioni di mas­sa, diede il suo contributo alla sofferenza dei popoli nativi». (cfr. pp. 133‑134). Prima di infie­rire sui nativi, gli spagnoli chiedevano loro di abbracciare il paradiso cristiano. Come avven­ne per un indio di nome Hatuey che aveva cer­cato di salvare alcuni del suo popolo fuggendo da Hispaniola a Cuba. Fu bruciato su un rogo e mentre arrostiva, «un frate francescano lo esortò a lasciar entrare nel suo cuore Gesù, così la sua anima sarebbe andata in paradiso anzichè scendere negli inferi. Hatuey rispose che se il paradiso era il luogo dove andavano i cristiani, allora preferiva andare all'inferno».

Cortès e Pedro de Alvarado, Lopez de Salcedo e Vasco Nunèz de Balboa, Hernando Pizarro e Lope de Aguirre, tra i tanti, furono quelli che maggiormente macchiarono le loro anime bestiali di inaudite infamie. A conquista avvenuta i territori occupati dai conquistadores videro l'estinzione dei loro popoli. Nel Messico centrale la popolazione diminuì del 95 per cento: dai 25.000.000 di persone del 1519 ai circa 1.300.000 del 1595. Nel Nicaragua occidentale morì il 99 per cento della popola­zione. Nei territori appartenenti oggi al Cile ed al Perù, dimore millenarie dell'impero degli Inca, prima dell'arrivo della feccia europea vivevano dai 9 ai 14 milioni di persone: alla fine del 1500 almeno il 94 per cento della popolazione era stata uccisa dai soldati di Pizarro.

Nell'America del Nord, agli Indiani toccò la stessa sorte che qualche tempo prima era appartenuta ai «barbari» irlandesi. Quando gli inglesi portarono a termine la fondazione di Jamestown, nell'attuale Virginia, segnarono il loro dominio con una croce, così come fecero gli spagnoli. Oltre allo sterminio ed alle torture, le truppe inglesi di Thomas Hariot e di Francis Drake seminarono malattie e morte in tutta la Virginia. Nel 1564 ebbe inizio un periodo di malattie e carestie che, in pochi anni, ridusse drasticamente la popolazione della Virginia, mentre una pestilenza devastante cancello quasi un gran numero di nativi Timucua in Florida. «Nel 1624, in un'unica battaglia, ses­santa inglesi armati uccisero ottocento indiani indifesi ‑uomini, donne e bambini‑ che si tro­vavano nel proprio villaggio. E naturalmente, come accadde ovunque, le malattie introdotte dagli europei contribuivano ad abbattere la resistenza indiana». (cfr. pp. 181‑182)

Anche nel Nord la percentuale dei nativi diminuì sen­sibilmente; intere nazioni vennero sterminate: il popolo dei Mohicani aveva subìto il 92 per cento di morti, mentre delle trentamila unità che caratterizzavano il popolo Quiripi­-Unquachog, dopo cinquant'anni ne erano rimasti appena 1500.

Gli anni dell'occupazione del West e le famose guerre indiane, che seguirono la guerra civile americana, segnarono la fine dell'identità e della nazione dei Pellirosse. Coloni avidi d'ogni bene materiale, la crudele politica espansionista governativa, insieme agli inganni ed a trattati mai rispettati dai colo­nizzatori, mescolati ad una ideologia razzi­stico‑positivista che vedeva nei nativi non degli esseri umani, bensì delle creature del diavolo, delle bestie inumane lontane dalla grazia del Cristo, furono le componenti che diedero il segnale per il definitivo abbando­no ad ogni sorta di razzia e di omicidio.

Prima della brutale opera di repressione ope­rata dalle «giacche blu» a Sand Creek (assassi­nio ricordato da Fabrizio De Andrè in una sua intensa canzone), un quotidiano ad uso dei giudeo‑cristiani ‑il “Rocky Mountain News”‑ esortava allo sterminio dei Pellirosse. Nel mar­zo del 1863, così scrisse, tra l'altro, il direttore sugli indiani: «Sono una razza dissoluta, vaga­bonda, brutale ed ingrata e dovrebbe essere cancellata dalla faccia della terra». L'animo insensibile e demoniaco del bianco euro­peo giudaizzato venne allo scoperto e lo ritroviamo in una espressione del presiden­te degli USA, l'ebreo Theodore Roosevelt, che qualche anno dopo ebbe ad affermare che il massacro di Sand Creek era stato «... un'impresa virtuosa e benefica come quelle compiute alla frontiera». [1 ]

Quanto successe, in altra occasione, a Wounded Knee nel Sud Dakota, ove fu compiuta da parte dell'esercito degli USA una car­neficina di indiani Sioux, resterà nella storia. «Centinaia di uomini, donne e bambini Lakota ‑scrive Stannard‑ furono uccisi dai potenti cannoni Hotchkiss (...) del 7° cavalleria e i sopravvissuti al massacro furono seguiti per miglia e uccisi in modo sbrigativo, perchè e solo perchè il sangue che scorreva nelle loro vene era sangue indiano».

«A quasi cinque chi­lometri di distanza dal luogo della strage tro­vammo il corpo di una donna completamente ricoperto da uno strato di neve ‑scrisse uno dei testimoni della carneficina‑ e da lì in poi ne trovammo diversi, sparpagliati dappertutto, come se fossero stati inesorabilmente scovati e uccisi mentre fuggivano per mettere in salvo la vita (...) Quando raggiungemmo il luogo dove sorgeva l'accampamento indiano, tra i frammenti delle tende bruciate e altri oggetti personali vedemmo i corpi congelati, distesi uno vicino all'altro o ammucchiati. Le donne ed i bambini costituivano più dei due terzi degli indiani morti ...». (cit. p. 209)

Malgrado l'irriguardosa opera di sterminio che il bianco europeo giudaizzato compì ai danni degli Indiani d'America, ci furono migliaia di coloni che lasciarono alle spalle la propria identità per aderire alle comunità dei nativi: essi venivano attratti dalla tranquillità e dalla generosità, dalla fedeltà e dall'etica comunita­rista che la società indiana rifletteva. I bianchi, «... vi rimasero perchè scoprirono che lo stile di vita indiano era caratterizzato da un forte senso di comunità, da un profondo amore e da una straordinaria integrità, valori che i coloni europei tenevano in gran conto, sebbene con meno risultati. Ma la vita indiana risultava allet­tante anche per altri valori, per l'eguaglianza sociale, l'instabilità, l'avventura e, come hanno riconosciuto due adulti convertitisi a quella vita, «la più totale libertà, la serenità dell'esi­stenza (e) la mancanza di quelle ansie e di quelle preoccupazioni logoranti che così spes­so dominarono la nostra vita».

Nessun india­no aderì, per scelta, allo stile di vita dei coloni, se non con la violenza... (cfr. James Axtell, “The invasion within: The contest of cuitures in colonial North America”, New York 1985, p. 178)

Sarebbe una irriguardosa ripetizione il riporta­re sulle pagine del mensile Avanguardia tutti i misfatti che, dal 1492 in poi, caratterizzarono l'operato dei coloni europei nelle Americhe ai danni dei nativi, ampiamente citati e documen­tati da Stannard nel suo libro.

L'adesivo ed il manifesto con Geronimo che la nostra Comunità Politica ha realizzato per la propaganda politico‑militante racchiude in poche righe il nostro pensiero sui marrani tra­sbordati oltreoceano. II libro da noi qui recensi­to rappresenta un'opera meritoria per ricordare tutte le sofferenze degli Indiani; l'opera dello statunitense Stannard merita di essere letta, poichè è riccamente documentata ed offre del­le ampie ed acute riflessioni sul tema.

L'onestà intellettuale che ci caratterizza ‑negli anni i dibattiti ed i rapporti dialogici intrapresi e cercati da Avanguardia con realtà differenti in antagonismo al mondialismo (dagli ambienti dei tradizionalisti cattolici a quelli dell'Islám Rivo­luzionario e Tradizionale, dai compagni agli anarchici, ai centri sociali ecc. ecc.) ed alla usu­rocrazia di stampo mercantile e liberalcapitali­sta sono stati diversi‑ ci porta a qualificare ed a ritenere necessaria la lettura de "Olocausto americano". Allo stesso modo affermiamo però che nutriamo delle fondate perplessità, meglio non condividiamo il tentativo dell'Autore di por­re in parallelo (cfr. il terzo capitolo dedicato a Sesso, razza e guerra santa) lo sterminio del Popolo Indiano per mano, ripetiamo, di bianchi europei già pervasi da un animo e da una pras­si razzistica di matrice ebraica e materialista, con certi aspetti che caratterizzarono la batta­glia condotta dal NSDAP in Germania, radica­ta per l'affrancamento del popolo tedesco dalla schiavitù del capitale ebraico che materialmente lo relegava nella quotidianità ai margini della società ed in uno stato perenne di miseria e di precarietà.

Non condividiamo, affatto, le affermazioni di Stannard sull'operato fondato su sedicenti basi di superiorità razziale dei coloni europei, che depredarono ed assassinarono gli Indiani, e poste in un pressochè costante parallelo con i dettami politico‑dottrinari del partito nazional­socialista. Anche se in alcuni circoli legati ad una visione pangermanista, antecedenti alla nascita ed al successo del NSDAP, vigeva un riflesso razzista legato ad un'idea che traeva origine da un positivismo di stampo biologico e darwinista.

Non si può legare l'operato dei presbiteriani e dei puritani, degli schiavisti giudeo‑cristiani e dei calvinisti, con la rivoluzione crociuncinata. È una stonatura dottrinaria molto evidente; i nazionalsocialisti vedevano nell'ebreo non il debole da sterminare, bensì il potente, l'usur­patore, che attraverso il dominio della banca e dell'oro ‑lo stesso che i loro antenati sbarcati nelle Americhe tolsero ai nativi attraverso lo sterminio‑ aveva inghiottito e sopraffatto il lavoro e la tradizione del proprio popolo, così come avvenne in Romania, in Ucraina, in Rus­sia o in Polonia. II Reich Nazionalsocialista non compì nessun olocausto, nè alcun genoci­dio, tanto che gli ebrei sono vivi a milioni (al contrario dei nativi) e presenti in tutto il mondo, Europa compresa, soggetto attivo di un nuovo genocidio condotto in terra di Palestina.

Le dichiarazioni razziste che traducono l'olo­causto americano le troviamo, ancora una vol­ta, nelle parole di un presidente statunitense del XX secolo: l'ebreo Theodore Roosevelt, quando egli ha potuto affermare che lo stermi­nio degli indiani d'America e l'espropriazione delle loro terre erano, in definitiva, positivi ed inevitabili.

«Queste conquiste ‑continuava‑ avvengono quando un popolo autoritario, seppur al princi­pio primitivo e rozzo, si trova faccia a faccia con la razza più debole e completamente aliena che nella sua scarsa capacità di comprensione costituisce un premio agognato». (cit. p. 389)

II massacro, in effetti, continua. Continua con le divaricazioni sociali in ogni angolo del mon­do e, in primo luogo, nelle società così definite ricche ed opulente dell'Occidente. Continua in Palestina. Continua ai quattro angoli del piane­ta per mezzo delle ristrutturazioni imperialiste, segnate dalle armi dei nuovi conquistadores a stelle e strisce.

Abbiamo allestito questa recensione, anche per denunciare, ancora una volta, la letale poli­tica condotta dal governo degli Stati Uniti d'America, se per caso ce ne fosse ancora la necessità. Colonizzato l'Afghanistan, in nome di una spudorata quanto falsa guerra al terrori­smo, essi adesso, in un documento ufficiale, si dicono disposti ad usare delle «mini bombe» atomiche [2] contro chiunque potrebbe addirit­tura mostrare resistenza nei confronti delle loro rappresaglie. Da ciò si deduce che l'uso di ordi­gni nucleari o termonucleari, «non è più limitato alla rappresaglia, dunque alla "deterrenza" del "se ci colpite noi, noi colpiremo voi" che aveva retto l'equilibrio della Guerra Fredda. II loro lan­cio è possibile nel caso di non precisati "svilup­pi militari inattesi", a discrezione dei comandi americani, contro qualsiasi bersaglio sia giudicato utile. (...) L'arma di "ultimo ricorso", quella bomba da impiegare per disperazione, diventa così un'arma "normale", uno strumento di attacco primario e banalizzato che i generali potranno utilizzare, specifica il documento, "contro obiettivi militari resistenti a esplosivi convenzionali, come bunker o rifugi rinforzati». [3] Nel comprendere tale e tanta follia, praticata da menti che attualizzano e ci consegnano pro­prio lo stereotipo di quei bramosi, ingordi, colonizzatori, affermiamo che faranno bene i popoli ‑quelli liberi, s'intende, quelli che non si ricono­scono nel volgare corso della politica capitalistica ed in quella militar-imperialistica propria degli USA‑ a costituire prima possibile un fron­te unito che combatta tenacemente quanto tiene in catene tutta l'umanità. Nelle nostre allucinazioni, nelle nostre visioni, così come nei nostri deliri (ragionati), abbiamo sempre intravisto il soggetto politico rivoluzionario, anticapitalista ed antistatunitense ...

Leonardo Fonte

Note:

1] citato in Thomas G. Dyer, “Theodore Roosevelt and the idea of Race”, Louisiana State University Press, Baton Rouge, p. 79;

2] "L'ordine di Bush al Pentagono: Pronti ad usare l'atomica", su “la Repubblica” del 10 marzo 2002, p. 17;

3] ibidem

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