domenica 7 marzo 2010

Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo

Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo

L’agghiacciante libro di David Stannard è un’accorata orazione funebre in memoria delle vittime del più grande genocidio della storia dell’umanità. Un genocidio peggiore di tutti quelli, già terribili, che il Novecento ha iscritto a sua vergogna messi insieme: gli stermini, cioè, di armeni, filippini, zingari, ebrei, tibetani, vietnamiti, bengalesi, timoresi, cambogiani, curdi, tutsi, bosniaci e palestinesi. Un genocidio che ha obliterato il novantacinque per cento della popolazione dell’intero continente americano, un numero imprecisato ma enorme di popolazioni, lingue e civiltà.
La prima parte del libro di Stannard cerca di ristabilire la verità dei fatti, in genere sotterrata dalle menzogne coloniali e cinematografiche che ancor oggi rappresentano le popolazioni precolombiane come scarse, selvagge e incivili. Esse non apparvero così ai primi conquistadores, che oltre ad approfittare della loro ospitalità si stupirono della bellezza della loro arte e della ricchezza delle loro città: alcune delle quali, come Tenochtitlàn o Cuzco, erano parecchie volte più estese e popolate di Siviglia o Londra. Quanto al numero di abitanti delle Americhe, esso si aggirava tra i cento e i centocinquanta milioni: una popolazione superiore a quella dell’Europa dell’epoca, Russia compresa. Venti milioni di persone, sei volte la popolazione dell’Inghilterra, vivevano nella sola valle del Messico, e altrettante nell’America settentrionale.

Anche la diversità culturale e linguistica americana superava di gran lunga quella europea: basta pensare che un recente censimento dei popoli indiani tuttora esistenti in Nord America ha registrato ottocento diverse nazioni, la metà delle quali formalmente riconosciute dal governo degli Stati Uniti. La straordinaria varietà delle civiltà susseguitesi nell’America precolombiana si può apprezzare ancor oggi, nonostante i saccheggi e le distruzioni, visitando i musei dell’oro di Bogotà e La Paz, o i siti archeologici anasazi della Mesa Verde, olmechi di La Venta, zapotechi di Monte Albàn, maya dello Yucatàn, aztechi di Città del Messico, nazca a sud di Lima, chimù di Chan-Chan e inca di Machu Picchu, per non citare che alcuni dei più conosciuti.

La seconda parte del libro di Stannard costituisce l’atto di accusa di un immaginario processo a carico di spagnoli, portoghesi, inglesi e statunitensi di fronte al tribunale della storia: un processo che, se celebrato, farebbe retrocedere quelli di Norimberga e dell’Aia al ruolo di mere appendici. Le imputazioni riguardano quattro secoli di ininterrotti massacri, perpetrati tra il 1494 e il 1891: cioè, tra la prima mattanza spagnola a Santo Domingo (allora Hispaniola) e l’ultima statunitense a Wounded Knee. Il numero di morti varia, a seconda delle stime, fra i settantacinque e i cento milioni: in altre parole, un quarto della popolazione mondiale dell’epoca.

Naturalmente questi numeri tengono conto soltanto delle vittime “indigene” e dovrebbero essere integrati dai numeri delle vittime “importate” dal commercio degli schiavi, che fiorì già a partire dal 1517. Fra i trenta e i sessanta milioni di negri morirono infatti nelle marce forzate verso la costa occidentale dell’Africa, nei campi di concentramento noti come baracoons, a bordo delle galere e nel processo di “acclimatazione” nelle Americhe, mentre una buona parte dei dieci o quindici milioni di sopravvissuti perirono di stenti durante il lavoro forzato. Ma l’“olocausto africano”, tragico complemento di quello americano, è un’altra storia.

Quanto allo sterminio americano, esso iniziò nel momento stesso della scoperta del Nuovo Mondo. Poche ore dopo aver toccato terra nel 1492, Colombo aveva già catturato sei nativi, dei quali scrisse che “dovrebbero essere buoni schiavi e sarebbero facilmente divenuti cristiani”. Il genocidio vero e proprio iniziò a Hispaniola nel 1494, con il secondo viaggio “di scoperta”: nel giro di pochi mesi le malattie, i soldati, i preti e i cani da caccia del “Portatore di Cristo” avevano ammazzato cinquantamila “indiani”, e in vent’anni gli otto milioni di abitanti dell’isola erano scomparsi. La pestilenza europea, letterale e metaforica, travolse successivamente Cuba, i Caraibi, il Messico, il Perù, il Brasile, il Venezuela, la Florida, la Virginia, la Georgia, il New England, il Massachussetts, il Colorado e la California: una via Crucis in cui furono usati tutti quei mezzi di sterminio di massa, dai campi di concentramento ai trasferimenti forzati di popolazioni, che in genere si pensa siano stati monopolio di Hitler e Stalin.

Nella terza e conclusiva parte del libro, Stannard va alla ricerca delle ragioni che hanno portato spagnoli, portoghesi, inglesi e statunitensi al macello dei popoli americani. Queste ragioni sono identificate, sostanzialmente, nel cristianesimo: non sorprendentemente, visto che già Elie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986, aveva notato che “tutti gli assassini dell’Olocausto erano cristiani, e il sistema nazista non comparve dal nulla, ma ebbe profonde radici in una tradizione inseparabile dal passato dell’Europa cristiana”. Anche le connessioni con il nazismo non sono sorprendenti, visto che da un lato il Mein Kampf modellò esplicitamente il suo progetto sulla “fanatica intolleranza” che caratterizza la storia della Chiesa cattolica, e dall’altro lato Hitler espresse apertamente la propria ammirazione per l’“efficienza” della campagna statunitense di sterminio contro gli indiani, considerandola una sorta di anticipazione della propria soluzione finale.

Più precisamente, Stannard identifica nel dogmatismo della rivelazione biblica, nel delirio della predilezione divina, nel razzismo della superiorità europea, nel fanatismo dell’evangelizzazione, nel disprezzo della natura e nell’orrore della sessualità le radici cristiane di un’ideologia che concepì e perseguì la conquista, lo sfruttamento e la devastazione dei territori “selvaggi” d’oltreoceano da un lato, e la conversione forzata, la schiavizzazione e il massacro dei loro “impudichi” abitanti dall’altro.

Il genocidio americano, indistinto e generalizzato, non ebbe però motivazioni uniformi. Gli spagnoli e i portoghesi, interessati a sfruttare le ricchezze dell’America centrale e settentrionale, considerarono gli indiani come animali da lavoro da sfiancare e rimpiazzare. Gli inglesi e gli statunitensi, intenzionati a occupare il territorio dell’America settentrionale, videro invece gli indiani come un impedimento da rimuovere ed eliminare. Se nel primo caso il genocidio fu un mezzo subordinato allo sfruttamento, e permise all’America Latina di mantenere una rappresentanza indiana consistente, per quanto repressa e sottosviluppata, nel secondo caso la pulizia etnica fu invece un fine autonomo perseguito in maniera sistematica.

Cinquecento anni dopo la conquista l’America porta il nome di un italiano, parla tre lingue europee e adora una divinità mediorientale. Le lingue e le religioni indigene sono scomparse, il novantacinque per cento degli indiani è stato annientato e il novantacinque per cento delle ricchezze del continente è stato depredato. Ma le due anime della conquista hanno condizionato diversamente la storia del continente. In accordo con la dottrina Monroe, oggi “l’America è degli americani”: cioè degli Stati Uniti, che insieme all’Europa urlano reclamando vendetta per le pagliuzze del terrorismo, ma non chiedono perdono per le travi del genocidio neppure sottovoce.

Testo di Piergiorgio Odifreddi

David E. Stannard
Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo
ed. orig. 1993, trad. dall’inglese di Carla Malerba,
pp. 455, 32 ill., € 38,73, Bollati Boringhieri, Torino 2001

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